di Mattia Sangiuliano
Una delle principali cause di perplessità in cui ci si imbatte, quasi ad ogni passo, nel considerare le cose d'Italia, (tutte le volte, cioè, che si tenta di sbrogliare una matassa politica specialmente aggrovigliata o di veder chiaro nell'esito di un inesplicabile fatto d'arme), è l’assurda discrepanza tra l’eccellenza di gran parte degli italiani singoli e il destino generalmente sciagurato del loro paese attraverso i secoli.
Luigi Barzini (junior), Gli
italiani, 1965
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Lavoratore italiano in una miniera nei pressi di Duisburg
(foto Bundesarchiv)
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In questi mesi trascorsi in Germania ho
avuto modo di conoscere un'infinità di realtà, di persone, di
intessere una vastissima rete di rapporti con gli altri. Ma soprattutto di osservare.
Colpisce, innanzitutto, il numero spropositato di ragazzi tedeschi che studiano italiano.
È stato sorprendente poter vedere con che passione questi giovani studenti si dedicano anima e corpo nello studio della lingua e nell'apprendere la cultura italiana.
Esistono però differenze fra studente
e studente. Vissuti personali, intimi, si intrecciano a motivazioni
che, come una componente propulsiva, spingono avanti questi giovani.
Spesso una passione maturata durante le scuole superiori li avvia allo studio della lingua; oltre a inglese e francese non è infatti raro che gli
studenti del Gymnasium studino l'italiano; un po' come
avviene anche in Italia, in molti licei, con la lingua tedesca.
Altri incominciano a studiare italiano
all'università per curiosità, anche se non si tratta di una materia curricolare; altri ancora decidono di studiare proprio questa lingua magari specializzandosi
nello studio delle lingue romanze in generale o proprio in quello
dell'italianistica, così come fanno specularmente gli studenti
italiani di una facoltà di lingue che studiano "Germanistik".
Un altro gruppo di studenti che sceglie di studiare italiano in un'università
tedesca, lo fa perché possiede una doppia identità.
Questo numeroso gruppo di studenti
tedeschi sente di appartenere ad una doppia cittadinanza, non una
vera doppia cittadinanza tedesca e metonimicamente europea, bensì si sentono come il frutto di
un ponte gettato tra la cultura tedesca e quella italiana.
Sono figli di emigrati italiani, uomini
e donne che sono partiti decenni fa per trovare lavoro e migliori
condizioni di vita fuori dalla loro Italia. I loro figli sono nati
tedeschi, ma per lo ius sanguinis sono, giuridicamente, a tutti gli
effetti italiani.
Hanno vissuto in Germania con una
famiglia italiana. Hanno imparato il tedesco frequentando la scuola in Germania, andandoci
con altri studenti tedeschi, mescolandosi a loro. Con i loro compagni
parlano e hanno parlato tedesco; anche con altri figli di italiani parlano e hanno parlato per lo più tedesco.
La prima generazione sente forte questo
legame con la terra natia dei propri genitori, con la lingua, le
usanze, gli oggetti e le abitudini che scandiscono la loro infanzia
italiana in terra tedesca, divisa tra i costumi di una loro
“non-patria” italiana e quella di una loro terra di adozione, che
li alleva come veri e propri figli, offrendo lavoro ai genitori e un'istruzione a loro stessi.
Una piccola distanza attraversa le
seconde generazioni. I nipoti degli emigranti italiani, ancora
ragazzi e ragazze cresciuti immersi nel mondo tedesco, magari allevati da due
genitori che parlano solamente tedesco nella ristretta cerchia
domestica, in cui, il più delle volte, solo uno dei due può vantare origini italiane.
Sono i ragazzi, oggi, i cui nonni si
sono spostati in Germania per trovare lavoro nelle fabbriche
tedesche, magari dopo la guerra, attratti dalla possibilità che
offriva la voglia di ricostruire una nazione martoriata dalla guerra
e dall'esperienza del nazismo.
Anche loro, per passione o vocazione
guidati dagli studi liceali, o, ancora, da piccoli oggetti, piccole
storie, piccoli frammenti di abitudini familiari, percepiscono le
proprie origini diverse da quelle dei loro compagni, dei loro amici o
concittadini. Decidono di assecondare una loro curiosità una loro
voce, intraprendendo così lo studio dell'italiano per approfondire un'identità il più delle volte duplice.
Esistono così, fondamentalmente, due difficoltà sotto il
profilo linguistico e contemporaneamente due grandi differenze: da un
lato ci sono gli studenti digiuni di italiano o perché vantanti un
albero genealogico interamente tedesco o perché frutti troppo
lontani dalle radici italiane della loro famiglia; dall'altro figli di emigrati recenti che hanno appreso l'uso dell'italiano dalla famiglia.
Da un lato studenti più o meno digiuni
dell'italiano standard, dall'altro studenti che portano sulle spalle
il peso della propria cultura italiana e, dunque, della cultura
regionale, ivi inclusa la parlata dei propri genitori. Questi sono
ragazzi che spesso parlano con i genitori usando la parlata
regionale di provenienza; unica varietà linguistica, quella
regionale, che sono riusciti ad apprendere dall'educazione familiare.
Molti studenti, in questo caso specifico, devono prima liberare il
campo dal regionalismo, sovente utilizzato come unico italiano, per adottare lo standard
che viene insegnato nelle scuole tedesche, magari grazie al sostegno
di lettori e lettrici madrelingua italiani.
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Italiani emigrati in Germania, ad un corso di formazione professionale
(foto Bundesarchiv)
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Ecco allora che entra in scena un'altra
figura, quella di professori di italiano che padroneggiano
perfettamente due lingue, l'italiano materno e il tedesco che hanno appreso. Uomini e donne, lettori e lettrici, che a seconda
dell'offerta formativa dell'università offrono corsi in lingua,
dalla sintassi, alla grammatica italiana, sino all'ostico corso di
“pronuncia e intonazione” passando per vari corsi che hanno come
obiettivo l'adozione della padronanza dello stile nella scrittura, analizzando anche testi di attualità o di letteratura.
Tutti corsi in lingua tenuti da
docenti, alcuni dei quali estremamente giovani, giunti in Germania in
quantità impressionante nell'ultimo decennio, rimarcando quella
cicatrice così cocentemente recente che va sotto il nome di "fuga di cervelli", la forma
di spostamento migratorio che colpisce in maniera impressionante l'Italia privandola di
un esercito di uomini e donne estremamente preparati e dotati,
fuggiti dall'Italia in cerca di una migliore condizione di vita o,
in molte circostanze, per veder riconosciuto un merito che in Italia
non sarebbe sufficiente a garantire di ricoprire un ruolo dignitoso. La ricerca di una migliore condizione spinge questi italiani laureati e meritevoli fuori dai confini patrii.
Oltre alla lingua, materia di studio prima, c'è infine il peso della cultura
italiana, insegnata nelle scuole e nelle aule facendo toccare con mano ai ragazzi tedeschi la storia e l'attualità, mostrando quella cultura che sembra quasi impossibile da spiegare a
ragazzi che vivono così lontani da un paese che sentono nonostante
tutto così vicino a loro; una realtà così a portata di mano eppure così
evanescente, così complicata, contraddittoria e,
spesso, grazie ai racconti che giungono loro, così incapace di
cambiare e cambiarsi; il confermarsi di quel nefasto assunto riassumibile nel pensiero
che Italo Calvino espresse già nel 1957 ne Il barone rampante:
“Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non
gli effetti”.
Forse
perché gli effetti si cerca di non vederli.
Si sente il peso di una cultura che,
quando viene raccontata, spiegata, calata nella quotidianità
raccontando i fatti di cronaca, gli intrecci così atipici e dannosi, tra malavita e potere, tra carenza di meritocrazia e connivenza con il proprio male, tutto riassumibile in un diffuso mal costume, non fa empire i cuori e gli animi di
tristezza, di un disperante senso di smarrimento che cerca, senza
riuscire a raggiungerla, una spiegazione; viene mostrata una storia senza morale alla fine dei fatti, poiché ancora non si è giunti alla conclusione, e il dramma deriva dalla reiterazione dello stesso scenario, senza che si riesca a cambiarne la traiettoria.
È dunque questo quello che accomuna
generazioni di ragazzi, uomini e donne, operai e docenti, una
nostalgica tristezza verso un qualcosa da cui ci si è lontani ma
da cui ci si sente attratti, spesso anche senza averlo mai potuto
toccare con mano.
E il motivo per cui alla domanda “Vi
sentite più italiani o tedeschi?” i ragazzi non possono che
rimanere perplessi, appena interdetti, presi contro piede, per
qualcosa che evidentemente si sono domandati in più occasioni, a
cui non riescono a rispondere, ma che suscita in loro una profonde empatia per la sorte di quelle altre persone che sono fuggite da un paese che chiamavano casa. Alcuni di loro spesso pensano ai propri genitori, ai propri nonni.
Da quella domanda gli stessi docenti sono stati costretti a prendere una certa distanza emozionale, per riuscire porla come fatidico quesito ad un uditorio così eterogeneo per vissuti personali talmente differenti l'uno dall'altro ma dipendenti da un'unica passione comune, capace di stringere insieme generazioni di persone.
Da quella domanda gli stessi docenti sono stati costretti a prendere una certa distanza emozionale, per riuscire porla come fatidico quesito ad un uditorio così eterogeneo per vissuti personali talmente differenti l'uno dall'altro ma dipendenti da un'unica passione comune, capace di stringere insieme generazioni di persone.
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