di Mattia Sangiuliano
Le parole di Renzi fanno riflettere. Che la distinzione destra-sinistra sia stata davvero soppiantata in favore di una più “pratica” opposizione idelogico-programmatica tra ciò che è “veloce” contro qualcos'altro, l'opposizione, che rappresenta il “lento”?
Che la tradizione delle politiche che hanno per oggetto “cose di destra” o “cose di sinistra” debbano davvero ora essere commisurate, successivamente appiattite e, infine, estinte su una posizione che ha per oggetto le “cose veloci” da contrapporre alle “cose lente”, secondo un semplicistico processo che vuole sbarazzarsi di storia e cultura, piegare delle regole, per far avanzare un programma, più che un progetto?
Ma, oltretutto, in base a
che principio o manifesto politico-culturale si può stabilire cosa
sia veloce e cosa lento? Ma, sopra ogni cosa, è mai possibile una
semplificazione del tipo: “veloce è bene” mentre “lento è
male”?
Ha ragione il professore
veneto, ed ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, nel consigliare,
dall'alto del suo magistero culturale e disciplinare, savia
attenzione nell'uso della velocità al giovane “allievo”?
Tra detrattori e
sostenitori i toni del premier sembrano però, al di là del giudizio
di valore, quelli da manifesto futurista. In primo luogo la velocità,
che spicca in ogni frase, in un ampio e dirompente avanzare di
ipotesi, di programmi, proposte, condite dalla deragliante velocità
di una retorica semplicistica ma non per questo meno aggrovigliata,
condita di autoironia, e dal classico silenzio in risposta a scomode
controrepliche.

La velocità della parola
cavalca l'istantaneità del “tweet” sempre pronto, estratto alla
velocità della luce dalla fondina, pronto a cavalcare il mainstream
del web rimbalzando da organi di informazione a corpo elettorale, in
un maremoto di mulinelli in cui è possibile notare il filo
conduttore solo in quello di una febbrile cinetica interna.
Anche lo sfregio verso il
popolo femminile da tempo a questa parte sembra indirizzare una nuova
piega della politica italiana, dove il popolo rosa deve essere
rappresentativo del cambiamento, forzato a volte, ma ancor di più
deve far notizia, al di là del merito, deve essere alla fine dei
conti frutto di una autolegittimazione e concessione di un potere
centrale. Tutte cose di cui si è già ampiamente disquisito in ogni
programma, talk e officina di informazione quotidiana. Ma le cinque
donne capolista per le elezioni europee spiccano, e pesano, al di là
di un vergine e immacolato curriculum vitae per il loro aspetto, per
il loro essere cavalli da battaglia per una politica che vuole
rinnovarsi dando un colpo di stucco alla sua immagine, o perché no,
di fondo tinta o cipria.
“Combattere contro il
moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica”
sembrano altre parole d'ordine di un programma di battaglia che, nei
fatti, deve essere ridimensionato alla luce dell'utilitarismo che
domina sopra tutto.
Anche per la guerra siamo
a cavallo, dal “movimento aggressivo” sino a “lo schiaffo ed il
pugno” di violenza futurista, immagini che si sposano bene e
programmaticamente con l'inamovibilità dall'acquisto dei tanto
desiderati F35.
Non a caso la poesia più
famosa e studiata a scuola, è l'esempio lampante di “Bombardamento”
di Filippo Tommaso Marinetti.
Ulteriore punto di
contatto sono i giochi di parole, il susseguirsi di lallazioni
infantili, che hanno un punto di contatto con l'autoironico intento comunicativo
renziano, poco lontano dalle onomatopee del futurismo “tradizionale”,
ricco dei più che noti suoni “tam-tumb-tumb” o “pluff-plaff”,
ma molto significativo per gli esiti che raggiunge con i suoi
continui ludi verbali; un esempio per tutti è il noto e celeberrimo
discorso in cui il gioco di “fare” e “sapere”, si traduce in
un “saper dire”
Anche il non accettare
autorevoli critiche e – lenti – punti di vista è tutto un
programma dal sapore futurista, se non nei toni, almeno nei
contenuti: “perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida
cancrena di professori”.
Manifesto futurista alla
mano gli argomenti ci sono tutti da “l'amor del pericolo”
passando per la sfilza concettuale sovente ripetuta di “coraggio”,
“audacia”, ribellione”. E ancora “l'insonnia febbrile”
sembra dipinta apposta per il legame medium e politica, dai
cinguettii di coraggio e di piccoli passi e progetti, lanciati
nottetempo o all'alba.
Non fosse poi che
l'intento incendiario verso i musei si sia tradotto in politica
estera, da una intenzione di andare a battere i pugni in Europa a un
omaggiare, invece che la Gioconda, la cancelliera, e non con un
fiore, bensì con una maglietta di calcio.
Il cerchio si chiude
ancora una volta con quella tradizione, lenta, ed estenuante di
valori che hanno sorretto una Politica con la “p” maiuscola,
ormai superata nelle parole, fatta di impegno, militanza, attivismo
dalla base, che ha portato alla condivisione di molteplici battaglie
per valore che dall'alto bisogna scavalcare. Il peso della tradizione
e dei valori, infatti, è troppo grande nell'incedere verso il
futuro, il peso di tali ideali non farebbe che rallentare l'avanzata.
Come è scritto nel Manifesto:
«Ammirare un quadro
antico equivale a versare la nostra sensibilità in un'urna
funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di
creazione e di azione»
Ma la domanda di quel
fantomatico Futurismo renziano,
così sicuro di se, così veloce dal voler superare tutto e tutti,
non è poi neppure così
implicita:
«Volete dunque sprecare
tutte le vostre forze migliori, in questa eterna ed inutile
ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti
e calpesti?»
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