di Mattia Sangiuliano
Domenica 26 ottobre, la ministra renziana Maria Elena Boschi ha dichiarato, dagli studi Rai di Fazio, che tra Fanfani e Berlinguer lei preferisce il primo, in quanto aretina.
Sinceramente non mi sono
stupito. Giuro. La cosa che mi ha davvero stupito è stata la
reazione di una gran quantità di persone che hanno deprecato la
scelta della Boschi.
«Preferire Fanfani a
Berlinguer?» è la sintesi dello sconcerto che si alza da sinistra
verso quel centro-sinistra sempre più democrat in stile
smaccatamente americano incarnato da Renzi e dalla sua vestale
Boschi. È questo sconcerto serpeggiante tra le fila di persone e
militanti radicali, di sinistra, a destare il mio più vivo stupore.
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Fanfani e Berlinguer |
In molti, un milione di
persone per la precisione, hanno preso parte alla manifestazione
indetta dalla CGIL lo scorso sabato 25 ottobre. Contemporaneamente,
in casa PD, o meglio a casa Renzi, si svolgeva la “manifestazione”
della Leopolda. Adesso, devo dire, definire la Leopolda una
manifestazione sembra, se non esagerato, per lo meno fuori scala;
sarebbe più corretto definire la Leopolda un evento – quale era –
mirante a organizzare, o rinfocolare, l'alone di partecipazione
rivestendo il partito di governo PD dell'intento di mantenere attivo
un certo barlume, un bagliore lontano, la scintilla in una fucina,
che dovrebbe – o vorrebbe? Ma lo vorrebbe davvero? – alimentare
il cuore attivo e vitale del partito: il contatto con la base.
La Leopolda è stato un
evento particolare, anomalo sia per un partito di governo, che per un
partito di opposizione, presenta i tratti di entrambi dunque
l'anomalia di alcune stridenti contraddizioni, la più grande della
quale vede la dirigenza eterogenea di un organo politico sempre più
macrocefalo, arricchirsi del contributo di esponenti della finanza e
di una non meglio identificabile fauna di attivisti democratici; come
la festa dell'Unità, in cui mangia-panini-e-salsicce sopra gli
“-anta” si chiamavano l'un l'altro compagno, cercando – senza
esito alcuno – di stabilire il magico momento in cui sulla loro
tessera del partito, le lettere PCI si erano ridotte a DS e, infine a
PD. Forse alcuni si domandano dove sia finita la falce e martello che
corredava i vecchi fasti operai delle occupazioni di fabbrica – «ai
miei tempi, quando c'erano le fabbriche in Italia...» potrebbero
dire fra qualche anno i più anziani fra loro –, o dove siano
finite le partecipazioni popolari in piazza. Beh, tutto si è chiuso
entro il comfort della Leopolda, una soluzione ricca di design che
riesce a mantenere il meglio dell'aspetto folkloristico che è
intenzioni delle alte sfere rispolverare ogni tanto. Stile festa
dell'Unità, per intenderci. Ma a questo si aggiunge un altro
aspetto, l'aspetto liberal-renziano della vicenda.
Molti partecipano più o
meno attivamente o contribuiscono a questo evento che vuole,
perlomeno dichiaratamente, tentare di rinsaldare un certo divario tra
la classe politica parlamentare, ormai inglobante un numero sempre
più variegato di personalità provenienti da altre correnti se non
addirittura da altri schieramenti politici, tutti riuniti nel nome di
Renzi, per guadagnare un piccolo tornaconto, magari una poltrona, e
la base del partito. Alcuni nomi spiccano più degli altri.
Fabrizio Landi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazioni
di Finmeccanica, ha donato 10mila €; Jacopo Mazzei, nel cda
aeroporto di Firenze, 10mila euro; Alberto Bianchi, Enel, 30mila
euro; Erasmo De Angelis, Unitá di missione presso Presidenza del
consiglio dei ministri, 6400€.
Senza contare la funzione della fondazione Open – ex Big Bang –
che, da quello che si può leggere sul sito internet, ha preso parte
al finanziamento di altri eventi direttamente legati alla Leopola –
ad esempio per le passate edizioni – oppure sostenendo rimborsi
spese ed eventi di campagne elettorali (vedi le primarie) nonché
iniziative legate al nome del premier Matteo Renzi.
Nella sostanza la fondazione Open è costituita da quattro nomi:
Alberto Bianchi, Marco Carrai, Luca Lotti e Maria Elena Boschi
(segretario generale).
Open, una fondazione molto poco trasparente, molto elusiva e
tutt'altro che “Open” – con la “o” maiuscola.
L'edificio della Leopolda
fu la prima stazione ferroviaria fiorentina. Anche oggi nella veste
di centro per conferenze e meeting, complice il riuso o, meglio, la
ridestinazione strumentale di alcune categorie di fabbricati per
altre finalità, si trova a svolgere la funzione di punto
d'arrivo e di partenza. Le vecchia sinistra è ormai un vagone che
ha viaggiato lungo binari morti, ne ha poi percorsi altri di servizio
per chilometri, è tempo di metterlo a riposare come un vecchio
arnese ormai prossimo alla rottamazione. Viene alla mente il Matteo
incazzato che urlava “Berlinguer è roba nostra”, controbattendo
l'esploit di Gianroberto Casaleggio.
Al massimo, le
anticaglie, possono essere tenute in un museo, in una teca di vetro,
giusto per dire le avevamo, a suo tempo. Oppure chiuse sotto chiave
in un ripostiglio, come se ci si vergognasse, pronte a essere tirate
fuori all'occasione, secondo l'uso. Non si sa mai. Anche i vecchi
capi di vestiario possono tornare di moda; e quel tocco vintage è un
qualcosa di intramontabile. Peccato che addosso a chi non sappia
conservarlo a dovere non puzzi soltanto di naftalina ma anche di
muffa.
È parte del nuovo
concetto di rottamazione: “parziale ridestinazione del vecchio”.
Mica bisogna sbarazzarcene. Il discorso gravita all'idea distorta che
è ormai consuetudine in politica. Mica devo cacciarli per davvero i
vecchi. Basta una poltrona. La verità è che l'accordo, il
compromesso tra poteri forti è una componente ineliminabile della
politica. Una cosa talmente banale che a risentirla ripetuta ancora
una volta, c'è il rischio possa suscitare la nausea. Peccato non sia
così.
È il finanziere Davide
Serra, amico del premier e suo finanziatore per le primarie PD del
2012, a sollevare un polverone per le sue sparate verso il diritto
allo sciopero. Dalle parole lanciate da Serra proprio il 25 ottobre,
mentre a Roma si svolge in simultanea la manifestazione della Cgil,
si capisce subito quale sia il bersaglio della polemica. Serra si fa
portavoce di una teoretica divisione utilitaristica dello sciopero che può essere “utile”
o “inutile”; stando alle sue parole, anziché protestare –
qui il patrono di Algebris, fondo speculativo con sede a Londra e tra
i più redditizi del panorama, ha lo sguardo rivolto verso la
manifestazione della capitale – se veramente i manifestanti
avessero voluto creare posti di lavoro e occupazione avrebbero potuto
essere a Firenze a prendere parte all'attività costruttiva della
Leopolda.

Si concorda ancora su
questo suo essere moralmente irreprensibile, proprio ora che la
coerenza e la
moralità dei politici – da destra a sinistra – già
da tempo irrimediabilmente incrinata, porta giorno dopo giorno a
rivelare nuove mele marce frutto di una struttura politica che ha le
sue radici innestate saldamente in un terreno corrotto e viziato. Se
ne trovano a tutti i livelli; campioni di mala-politica, connivenza,
corruzione, disinteresse verso la cosa pubblica; nelle istituzioni si
muove un subdolo esercito di personalità prestate alla politica e
che vedono nella politica un mezzo verso l'ascesa e la carriera,
verso il prestigio e il guadagno. Dove il rapporto politica-finanza
sembra aver stretto ancor più forte il suo abbraccio si scatena
l'ingiustizia.
La domanda allora non è
“perché Maria Elena Boschi ha scelto Fanfani?» quanto,
bisognerebbe chiedersi, perché NON abbia scelto Berlinguer. Ma la
domanda è scontata e superficiale, il solo porsela dovrebbe
perlomeno far destare il più vivo stupore. Questo perché la
risposta l'abbiamo proprio sotto gli occhi.
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