di Mattia Sangiuliano
Sin City, una donna per cui uccidere. Sono andato al cinema conscio del fatto che, molto probabilmente, non avrei trovato ciò che molti si aspettavano, sicuro del fatto che non avrei provato la stessa ebbrezza del primo episodio datato 2005. C'era da aspettarselo in fondo.
La pellicola del secondo episodio sacrifica molto del noir presente nel film di nove anni prima, prevale su tutto un'impronta hard boiled forse più marcata cui fa da sponda un fiume di pulp; è un film d'azione, violento e crudo, in bianco e nero; godibile come tale, così come tutte quelle cose già assaporate che, si sa, non torneranno indietro.
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Ava Lord alias Eva Green |
“Una donna per cui uccidere” o, almeno, se non siete così drastici o vi sentite presuntuosi al punto da esser certi di non venire insidiati dal suo fascino potreste accontentarvi di “una donna per cui andare al cinema”. Sto parlando di una Eva Green dallo sguardo seducente che squarcia lo scherno in bianco e nero, semi svestita per ¾ delle scene in cui compare; succinta o completamente spogliata, seni al vento e labbra che sembrano risucchiarti nello schermo; soggiogante pupa in una sordida ambientazione di bulli o, più semplicemente, sfortunati uomini pronti a gettarsi ai suoi piedi. E tu, quasi certamente non saresti da meno.
Ava Lord alias Eva Green, femme fatal a tutto tondo, anzi, tutta curve vertiginose, possiede l'arma più pericolosa e distruttiva di tutte nella peccaminosa City di Frank Miller: il fascino e un corpo da urlo. Arma di disinibizione di massa. Pronta a insidiare persino il detective Mort alias Cristopher Meloni (detective Elliot Stabler nella serie Law and Order, Special Victim Unit) in questa parte slegato dalla sua nota e abitudinaria scorza di integerrimo paladino prodotto del police procedural.
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Ava e Dwight in una scena del film |
Il film si apre subito
con la prima storia, presentando i «150 chili di ferro» di Marv (Mickey Rourke),
partorito dalla mente di Miller e gettato nell'inferno della City del
peccato; inutile dire quanto si trovi a suo agio anche in questo
secondo film ambientato nella turpe cittadina in bianco e nero e
fiumi di rosso sangue e sbavature di rossetto.
È dunque Marv a fare gli
onori di casa e stendere lo zerbino che ci accoglie di nuovo a Sin
City, uno zerbino di quattro sfigati-fighetti che si sono messi sulla
sua strada; niente fuori dell'ordinario è Just Another Saturday
Night, “Solo un altro sabato sera”.

La città vecchia è in
mano alle prostitute, alla lussureggiante eden di libido ammassata
nel quartiere dove neppure la polizia ha il permesso di addentrarsi
impunemente; la legge delle amazzoni non perdona i trasgressori.
La città vecchia accoglie e ristora con i suoi dolci e peccaminosi frutti, basta stare alle
regole di Gail.
Sempre che si riesca a sopravvivere al gelido
silenzio della bella e letale Miho e al suo entrare in scena, che non
preannuncia niente di buono; non proferisce parola «la piccola e
letale Miho», sinuosa ciliegina su una torta insanguinata, miete più
vittime lei in dieci minuti di film che tutta l'accozzaglia di
psico-sociopatici della criminosa città, Marv in testa, nell'intera
durata del film. Katana alla mano e un arsenale di shuriken più
un'inesauribile scorta di frecce pronte a fare il loro dovere,
rigorosamente al centro della testa del bersaglio. Cerchiamo di non
citare Kill Bill solo per aver visto una katana, qualche tarantiniano
potrebbe trovare da ridire sulla liceità dell'analogia. Forse
avrebbe ragione.
Spicca quel passaggio
tricromatico di bianco, nero e sangue ad un semplice bianco e nero
molto fumettistico, anche troppo fumettistico nel caso del Sin City
di Frank Miller, nel momento del massimo orgasmo di sangue
nel culmine del massacro; dà da pensare. Complice il
passo felpato della silenziosa, fredda e impassibile Miho.

Storia lineare? No
grazie. Anche questa volta il plot del film risulta essere un po'
complesso; niente di esagerato. Difficile solo per chi è digiuno di
questo tipo di storie, di chi, nonostante la buona dose di violenza e
sparatorie, non digerisce il passaggio da un capitolo all'altro o,
magari, commette l'errore, comune anche tra gli spettatori più
navigati e con lo stomaco di ferro, di affezionarsi ad uno dei
personaggi.
La vera difficoltà non è
propriamente il modo in cui sono legati fra loro i vari capitoli del
film ma il modo in cui questi richiamino i fatti del primo Sin City –
datato 2005. Unito a questo i rimandi interni creano una situazione
tutt'altro che lineare, fatta di sobbalzi, cambio di tono, a tratti
sembrano dare allo spettatore poco allenato, o distratto, magari poco
preso dalla trama, l'idea di una contraddizione se non addirittura di
un paradosso che attraversi la trama, facendo della frammentazione della storia una
polverizzazione di personaggi.
Cambi di scenari, di
storie, di personaggi che si alternano, tutto questo fa parte
dell'universo della peccaminosa City; un personaggio lascia lo
schermo giunta a compimento la sua missione, non per forza eliminato
brutalmente, e subito senza troppi preamboli entra in scena un altro
personaggio, un altra vicenda, viene aggiunto qualche altro scenario.
Così scorrono le storie
nella torbida Sin City, il personaggio secondario di una vicenda
diventa il protagonista di un'altra vicenda e così via anche per la
storia successiva, dopo la parentesi o l'epilogo di un'altra.
A fare da spalla a
Dwight, in una notte pregna di cattivi presagi, viene chiamato il
colosso Marv; nella loro fuga dentro la città vecchia con alle
calcagna gli sbirri di Sin City, fanno la comparsa le amazzoni della
lussuriosa fauna di questo luogo di piaceri, alcune delle quali già
presenti nel primo Sin City.
Lo stesso Marv guardia
della piccola (ma tutt'altro che indifesa, in questo capitolo)
spogliarellista Nancy alias Jessica Alba, sostituitosi nel
ruolo di angelo custode dal fu John Hartigan (Bruce
Willis) sempre del primo Sin City tratto dal capitolo
“Quel bastardo giallo”, tornerà ancora per spalleggiare
la sua protetta.
In buona sostanza per chi
è digiuno delle graphic novel di Miller e si aspetta un semplice
sequel del primo film si sbaglia di grosso; per chi invece ha perso
il primo Sin City e confida in una storia unica e monolitica altro
errore di calcolo. Nella trama di Una donna per cui uccidere
alcuni capitoli sono legati al primo film con l'obiettivo di
tracciarne un seguito; alcune vicende risultano essere state
variamente mescolate tratteggiando i caratteri temporali del prequel.
Apparentemente sembrerebbe di essere proiettati in un universo cronologicamente parallelo al primo episodio, ma da questo dipendente; come un'appendice.
La trama è nel complesso
godibile, matematica, soprattutto nel modo in cui i singoli eventi, e
i vari capitoli, sono cuciti fra loro.
Giudizio. Volete
davvero un giudizio sul film? Non vorrei sbilanciarmi.
Sicuramente non è una pellicola da elogiare, non so quanti la
elogeranno. E forse così ho già detto tutto.
Un grande peso della
pellicola? Essere un numero due, questo certamente influisce e grava su ogni possibile giudizio. Chi è andato a vedere il film avendo in
testa il primo Sin City – come me – è stato variamente deluso:
chi confidando in un film di caratura pari o superiore al primo è
stato molto probabilmente smentito, chi invece è andato a vederlo
sapendo che non avrebbe mai eguagliato il primo è stato amaramente
soddisfatto. Qualcosa mi fa pensare che la prima categoria di
cineasti sia molto rara.
Il
noir del primo Sin City sembra sbiadire nei tratti tipici di un film
d'azione, comunque sia ben riuscito. Esaltante invece
l'introspezione psicologica degna della graphic novel firmata Miller;
dove l'impianto fumettistico viene forzato oltre il parossismo, il
risultato rischia di far perdere la presa sul pubblico e la piena
godibilità del tratto, fortunatamente l'eccesso è raro e
circoscritto a passaggi ben precisi. Il giudizio complessivo
sull'opera resta comunque positivo.
C'era
da aspettarselo. Emerge il ritratto di un Sin City sottotono. Eva
Green a parte. Ma questo, forse, non è un valido motivo.
Forse ci si è buttati su
Una donna per cui uccidere con
troppa foga. Siamo la generazione delle troppe aspettative mai
sopite. Peccato. O per fortuna.
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