di Mattia Sangiuliano
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Grigia solitudine - Fabio Boccalon |
Eppure cosa c'è di reale
in tutto questo? In questa caccia a presunti fantasmi domestici,
misteriosi risvolti di una vita privata che deve essere spaginata in
faccia a un pubblico passivo, tra dichiarazioni e ricostruzioni,
forse niente; l'edulcorazione della vicenda stordisce, è un colpo
sferrato in pieno petto; toglie il fiato. Tutta la vicenda diventa il
teatrino dell'irrealtà.
Un suicidio in una
località di provincia; un ventitreenne che si toglie la vita con un
colpo di pistola, in casa sua, in una città di neppure trentamila
abitanti. Il passaparola tra amici e conoscenti diffonde la notizia,
l'accompagna la paginetta online della cronaca locale, tinta di nero,
diffusa e condivisa (thanks-to-share-it?)
su e tra i profili facebook dei conoscenti. Anche io apprendo così
dell'accaduto.
C'è chi parla, chi
borbotta, chi si domanda "perché?"; ci sarà da qualche
parte – e c'è sempre, un esponente di questa nutrita fauna di
individui – chi si domanderà "perché no?", è colpa
dello Stato, della crisi, dell'economia; nell'equazione mentale di
molte persone il fantomatico "gesto estremo" è una
soluzione logica, il risultato di una somma algebrica; un'azione
ammirabile per taluni, la condensazione del pensiero "ci vuole
un gran coraggio per ammazzarsi". E molti lo pensano
davvero.
Nessuno sembra accorgersi
di quel mostro di solitudine che appollaiato sulle spalle di
ciascuno, sembra ingrassare cibandosi del disagio individuale,
divenendo un'escrescenza tumorale, sempre più ingombrante, sempre
più oppressiva e dannosa, può colpire chiunque; un senso di colpa
comune e apparentemente invisibile ma estremamente diffuso.
Vado a ricercare un passo
di un libro di Vittorino Andreoli, La violenza,
a sostegno della tesi di come l'essere uomo sia l'unica specie in
grado di commettere il suicidio in maniera attiva, distinguendo tra
un “suicidio rapido” e uno “lento”:
«Ci
si suicida di solito prima nello spazio mentale, dove si esegue con
precisione e ripetutamente l'operazione che poi, spostandosi nello
spazio fisico, porterà alla morte. La freddezza dell'esecuzione è
frutto dell'abitudine maturata nei continui suicidi fantastici, il
gesto progressivamente si automatizza, perde di emotività, come se
morire fosse ormai familiare. La sua iterazione nello spazio mentale
può dargli addirittura un effetto piacevole. In questo gioco di
morte, insensibilmente, il gesto si sposta sul teatro del tempo e la
corda non è più solo di fantasia, ma di canapa; circonda il collo
mentre si è appesi su una sedia che poi, buttata via, lascia appesi,
con il dolore di non poter più continuare a suicidarsi.»
No man is an island,
scriveva John Donne; nessun uomo è un isola. Il “coraggio”
non proviene semplicemente dal singolo è bensì una miscellanea di
cause esterne che confluiscono verso un'unica direzione, sotto il
peso di un'asfissiante oppressione. È la società che riesce a
infondere il "coraggio", a far nascere e crescere
l'intenzione di farla finita. Il "coraggio" non è allora
più tale, è il frutto di qualcos'altro; è l'esasperazione,
l'alienazione, la colpa di una malattia sociale; il suicidio quando
avviene non è semplicemente morte volontaria del singolo, non è un
intento autolesionistico portato all'estremo o, ancora, non è solo
violenza verso di sé; è omicidio da parte di una società che non è
in grado di ascoltare l'individuo; il modello proposto – nel mare
di modelli – non è più a misura d'uomo; il singolo deve adeguarsi
al flusso, alle istanze, alla massa, pena l'alienazione,
l'esclusione, una malattia sociale strisciante: l'individuo che non
trova posto in modelli che, non sono – e non possono essere –
ritagliati su misura per lui, viene limitato nella possibilità di
intrecciarsi con il flusso di relazioni che scorrono attorno e,
infine, escluso da ogni possibilità di relazione, spinto a ritrarsi
dalla società.
Il sociologo francese Émile Durkheim, in un suo noto saggio di fine ottocento (Il
suicidio. Studio di sociologia; 1897), parla di “suicidio
egoistico” per definire quella tipologia di suicidio che si
verifica quando l'individuo non è sufficientemente inserito nel
tessuto sociale.
È l'omologazione, per
dirla pasolinianamente, che striscia entro la società e, da tutte le
parti, avvolge e stritola con le sue spire l'individualità del
singolo, il bisogno di ritagliarsi un modello slegato da vincoli
determinati, la paura e l'orrore di ritrovarsi diverso ed escluso,
isolato; si manifesta la sensazione della colpa.
Il "gesto estremo"
non è altro che una logica conseguenza, per i più, e forse è vero;
ci si concentra però unicamente sulle cause interiori che spingono
l'individuo, sottraendolo parzialmente dal contesto sociale in cui
l'individuo si muove.
La
famiglia allargata diviene famiglia nucleare, così mentre la società
si allarga, mentre la famiglia non solo come istituzione viene
frammentata, il singolo è la porzione corpuscolare che deve
adeguarsi a un flusso molto più ampio e indistinto della “famiglia
sociale” retta dalle proprie leggi. La famiglia perde i suoi
confini, la possibilità di arginare l'indeterminatezza, di fornire
un appiglio cui aggrapparsi per poter condensare il flusso della
corrente in un'immagine fissa e stabile.
La
famiglia è il primo teatro della tragedia, il fondale dipinto a
tinte fosche, il luogo e lo scenario, non più sistema di valori, è
il capro espiatorio che non si sa come giudicarlo – fa sponda il
giornalismo interessato, indiscreto, spettacolare che deve trovare il
sensazionalismo in ogni risvolto.
Ci muoviamo nella società
degli spettatori, di coloro i quali sono chiamati ad assistere,
commentare il fatto, la cronaca nera, anestetizzati dal peso della
violenza e da istanze e categorie troppo strette ma che riescono,
semplificando di volta in volta, a rendere tutto più logico e
sequenziale.
Balzano agli occhi le
solite frasi, le solite requisitorie, gli stessi identici discorsi
che in centinaia di migliaia di articoli uguali o simili riproducono
la stessa celebrazione eucaristica, lo stesso identico salmo, la
medesima litania. È un rito mediatico.
Un interrogarsi vuoto e
autoreferenziale, il culto del dettaglio, della ricostruzione; si
ricostruisce una vicenda di dolore domestico, di pagina in pagina le
supposizioni si alternano, è tutto volto alla probabilità. Il
diritto alla cronaca sovrasta il dolore, è ronzio sordo e distratto
cui ci siamo abituati, un rumore di sottofondo che ammorba la
quotidianità. È un rumore stridente che porta all'assuefazione
collettiva, sovrasta ogni altro suono, si trincera dietro frasi
fatte, stereotipi da utilizzare all'occorrenza. Si osserva la vicenda
di cronaca nera di turno, ci si pongono le solite domande, si muovono
le solite opinioni; è spettacolo anche questo in fondo.
L'infelicità del
singolo, quello stato d'animo che ha portato al famigerato gesto
estremo è movente, occasione e corpo del delitto. L'infelicità è
il frutto della depressione del singolo – sequenzialità – di
un'intrinseca causa interna che rende logico, agli occhi del
pubblico, il gesto. Il fulcro è la capacità del grande pubblico di
immedesimarsi.
Nel
suo saggio del 1930 intitolato Il
disagio della civiltà,
Freud si interrogava sulle frustrazioni, che la ricerca della
felicità comporta.
La
felicità è un qualcosa di estremamente soggettivo eppure cerchiamo
di imporre la pretesa di oggettività al nostro modo di sentire e
percepire il mondo attorno a noi, facendolo aderire al nostro
vissuto:
«noi
avremo sempre la tendenza a concepire la miseria oggettivamente, cioè
a immetterci in quelle condizioni con le nostre pretese e la nostra
sensibilità, per poi stabilire quali occasioni vi troveremmo di
sperimentare sensazioni di felicità e di infelicità.»
Il
rapporto felicità-infelicità, così come i concetti di depressione
e senso di colpa, sono correlati allo stesso disagio che l'individuo
prova entrando a contatto con una struttura plurale e sociale.
L'essere
umano si muove in un contesto sociale ben definito. Dalla sua
comparsa sulla terra l'essere umano è stato spinto dall'istinto
d'associazione e si è stretto in comunità come similmente fanno
molte specie animali; comunità via via più complesse hanno preso
vita e si sono sviluppate; la vita dell'individuo è stata scandita
da regole sempre più rigide, si è sviluppata la civiltà, entità
propria, specifica della storia dell'essere umano; l'uomo ha
costituito un nucleo retto dalla socialità, mediante delle leggi e
caratterizzato da un grado di complessità ben diverso dalla
spontanea aggregazione che sottende il rapporto tra animali della
stessa specie e ben che meno specie diverse spinte da una possibile
aggregazione mutualistica:
«la
parola civiltà indica l'intera somma delle opere e delle istituzioni
in cui la nostra vita si distacca da quella dei nostri antenati
animali e che servono a due scopi: a proteggere l'uomo dalla natura e
a regolare i rapporti degli uomini tra loro.» (Freud)
L'uomo
è stretto all'interno di un sistema di convenzioni e regole che,
allo scopo di costituire la “famiglia umana”, le leggi e i
meccanismi di controllo, atti anche a mortificare il singolo, hanno
l'obiettivo di imbrigliare – nel tentativo di eliminarle – le
pulsioni aggressive e quelle erotiche. L'individuo deve aderire a
modelli sociali ben definiti. Questa è la scaturigine del disagio
dell'individuo in seno alla società.
Ci
si interroga poco sulle cause, quando si cerca di scavare le
motivazioni si gratta solo la superficie, si studiano soltanto
categorie superficiali e generali, è ciò che genera lo spettacolo;
interrogarsi su quanto sia malata una società alienante è altro,
non è adatto ad una platea massimalista; il colpevole non può
essere la società, o la legge sociale che può arrivare a
mortificare il singolo, deve essere una causa interna.
«Sembra
quasi che la creazione di una grande comunità umana riuscirebbe nel
modo migliore se non ci fosse bisogno di preoccuparsi della libertà
del singolo.»
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