recensione di Mattia
Sangiuliano.
“La bestia dentro di
noi; smascherare l'aggressività” di Adriano Zamperini, p. 179, il
Mulino (collana Intersezioni), 2014, 14€.
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Artemisia Gentileschi, Giale e Sisara (1620) |
L'autore dell'opera, che
già aveva trattato l'argomento in un articolo chiosante il numero
zero di Parallàxis, lo precisa sin dall'inizio di questo nuovo
lavoro: attraverso il legame che sottende aggressività-media si
viene spesso “sedotti da un'idea sbagliata” dell'aggressività.
Le argomentazioni del
libro riescono a catturare l'attenzione del lettore spostandosi su un
campo interpretativo articolato e variegato, apparentemente pieno di
insidie. Zamperini riesce a muoversi abilmente senza farci mettere il
piede in fallo in qualche trappola che possa far crollare la
costruzione dell'opera e la tesi del libro: quell'idea
dell'aggressività frutto di una pulsione interiore o di un processo
biochimico naturale – a tratti fatalista – è invece condannata
senza appello come “un'idea sbagliata” cui ci ha assuefatto non
solo la stampa ma anche la politica del clickbatting nell'era della
(dis)informazione digitale, trovando un ampio consenso veicolato dal
sensazionalismo della cronaca nera, grazie a chi sfrutta il legame
tra aggressività-violenza e appetibilità mediatica della stessa
cronaca che viene propinata dai palinsesti televisivi.
Con alcuni esempi
Zamperini mostra come il rapporto, e l'idea, di un'aggressività
vista come pulsione interiore non solo sia infondata o frutto di
approssimazioni ma poggi su un beneplacito consenso di pubblico,
appannaggio di una semplificazione comodamente popolare ma
soprattutto sfruttata da chi rispolvera e prosegue vecchie tesi ormai
screditate. Vengono alla mente le teorie di Lombroso, le criticate
pulsioni di Freud, transitando per alcune tesi ormai superate –
fortunatamente – di Konrad Lorenz padre dell'etologia
contemporanea; parimenti fallace lo studio dell'aggressività vista
come frutto di un imprecisato processo biochimico e metamorfosi
animalizzante dell'uomo. Alla stessa maniera, con incursioni in vari
campi, vengono affrontati il rapporto aggressività-guerra,
aggressività-protesta e la presenza della violenze nelle scuole.
Nel
primo corposo capitolo vengono svelate le maschere scientifiche con
cui viene vestita l'aggressività, quell'erronea bestia che alberga
dentro di noi. In questa direzione la pulsione – o istinto –
postulata da Freud, traducibile dal lemma tedesco Trieb,
non ha un sostanziale fondamento empirico nel campo scientifico,
vengono così messe in discussione alcune tra le molteplici teorie
che alcune scuole di pensiero hanno utilizzato per descrivere
l'aggressività come fenomeno naturale, frutto di una semplicistica e
spontanea reazione chimica che si origina all'interno dell'individuo,
escludendo o tirando in ballo – a seconda del caso – l'incidenza
dell'ambiente esterno.
In campo biologico si è
cercato di rintracciare il fantomatico gene, a detta di molti,
portatore della violenza come causa endogena che minaccia di rompere
gli argini per travolgere ciò che circonda l'individuo affetto da
una patologia iscritta nel suo corredo cromosomico; teorie che
sottendono, alimentandola, la teoria del gene antropomorfo,
ricordando Il gene egoista
opera di Richard Dawkins, costruita su questa idea del gene come
entità pensante – antropomorfa per l'appunto. Stessa situazione
per quanto riguarda determinati ormoni che porterebbero l'uomo a
scatenarsi contro il suo simile.
Balza
agli onori della cronaca l'anomalia cromosomica XYY, dunque la
convinzione che la sede dell'aggressività sia una condizione
ereditaria legata alla presenza di un doppio cromosoma maschile nel
corredo genetico di un individuo; trova adito l'idea che gli uomini
siano naturalmente più
propensi a commettere atti di violenza rispetto alle donne, secondo
anche quanto sostiene una prospettiva biodeterministica, il
testosterone, ormone maschile, sarebbe la base dell'eccitamento o il
risveglio di determinati comportamenti aggressivi – soprattutto –
negli uomini.
Corrispondenza
di guerra in numerosi teatri di conflitto sparsi per il mondo, e la
storia stessa, con uno sguardo al passato, mostra come i conflitti
siano la rappresentazione e la condensazione della violenza. La
guerra è l'archetipica forma, l'immagine più nota ed eclatante, in
cui si manifesta l'aggressività.
Il
soldato che combatte in un'area di conflitto non è solo o isolato
contro un nemico, è inserito in un tessuto di relazioni o, più
precisamente, in una rigida gerarchia; in guerra il singolo è la
parte di un tutto, di un meccanismo plasmato – attraverso la
propaganda, o l'indottrinamento, e l'addestramento – per aderire ad
un codice comportamentale in cui si è efficienti in quanto unità
superiore al singolo. Durante un conflitto, inoltre, le azioni del
singolo militare, soldato, o guerrigliero, devono essere incentrate
sul mantenimento di una vitale distanza che, seguendo i dettami della
propaganda, mira a delineare la diversità del nemico e vuole evitare
il contatto tra le parti cosicché il fondamentale odio instillato
tra gli schieramenti non sia fatto crollare dal constatare
l'inconsistenza della differenza propugnata dal sistema e funzionale
a vincere la repulsione verso l'uccisione che il soldato è portato a
provare.
L'aggressività,
e alla sua base la rabbia, è il fondamento della protesta. Le masse
vengono fatte coincidere con l'idea di orda, specialmente se a questa
immagine vengono accostate quelle del tumulto, della rivolta e della
sollevazione popolare. Doverosa la rievocazione della scena che
Manzoni dipinge ne I promessi sposi attraverso gli occhi di
Renzo. La partecipazione alla vita pubblica tramuta l'orda in
movimento sociale. Che siano manifestazioni di movimenti o folle in
rivolta, alla base si trova la rabbia. In alcune situazioni la
violenza è realmente l'unico modo possibile in cui farsi ascoltare,
dare voce alla protesta. La violenza è un evento estremamente
appetibile per i media e, allo stesso tempo, lama a doppio taglio per
i manifestanti.
La
rivolta prende forma quando viene maturata la diffusa idea di subire
un trattamento diverso e di essere accomunati dallo stesso
trattamento, vittime di un sistema che porta all'esclusione, la
rottura matura la possibilità di ricercare un'alternativa a questa
realtà. La violenza così risultante è la prova del fallimento
delle politiche di uguaglianza non raggiunte, mancate. La società
può guardare a queste rotture come a una fonte di arricchimento.
L'aggressività
è una maschera che si indossa anche a scuola, alimentata dalla
componente gregaria che il gruppo riveste, spalleggiata dal mondo
degli adulti, dal corpo docente che si rintana dietro la comoda
aderenza al ruolo, sinonimo di disimpegno; dai genitori che difendono
i propri figli a spada tratta, spalleggiando di fatto il fenomeno del
bullismo. L'emarginazione di una frangia di ragazzi e ragazze, il
loro venire ostracizzati, risponde ad una realtà sociale con regole
interne – un dentro e un fuori – contrapposte all'altra sfera
dell'istituzione; l'esclusione dal gruppo è la condanna che pesa
sulla vittima, negandogli dunque la possibilità di reintegrarsi. La
nomea che pesa sul singolo è però una condizione che crea un legame
tra le vittime, si manifesta la prospettiva di un'identità
collettiva; i vendicatori di classe sono accomunati alla categoria
dei sottomessi ed emarginati. Una rabbia ed un'aggressività
percorrono questi aspetti, la risposta dei sottomessi, anche
attraverso l'enfasi mediatica in cui il fenomeno è più dilatato
negli States, può sfociare nel fenomeno degli school shooter,
gli sparatori che entrano nelle scuole aprendo fuoco contro compagni,
studenti e insegnanti, indiscriminatamente, nel tentativo di cercare
affermazione, rivalsa, vendetta.
Da
questo quadro emerge come l'aggressività non sia frutto di un
meccanismo naturale di cui è pertanto impossibile fornire un'analisi
empirica.
Il
punto di arrivo non è lo stesso cui Zamperini giunge nell'articolo
comparso sul numero 0 di Parallàxis:
«Insomma, la scienza contemporanea ha ormai levato tutte le maschere fatte indossare alla bestia; e di lei, dentro di noi, resta ben poco. Sicuramente non c'è alcuna traccia di quella cosa chiamata “aggressività” che avrebbe dovuto essere la causa di un comportamento bestiale. Il tentativo di frazionare la cosiddetta natura umana in singole parti (l'homo duplex del gotico di Stevenson) per spiegare fenomeni complessi come il comportamento umano aggressivo è franato»1.
«Insomma, la scienza contemporanea ha ormai levato tutte le maschere fatte indossare alla bestia; e di lei, dentro di noi, resta ben poco. Sicuramente non c'è alcuna traccia di quella cosa chiamata “aggressività” che avrebbe dovuto essere la causa di un comportamento bestiale. Il tentativo di frazionare la cosiddetta natura umana in singole parti (l'homo duplex del gotico di Stevenson) per spiegare fenomeni complessi come il comportamento umano aggressivo è franato»1.
Il
tentativo di spiegare biologicamente l'aggressività è destinato a
franare: non è qualcosa di naturale e l'individuo non è ostaggio
nelle mani di processi e dinamiche involontarie. L'azione offensiva è
volontaria, frutto del deliberato gesto di voler infliggere danno a
qualcun altro.
1Adriano
Zamperini, L'aggressività come genere narrativo del
doppio, in Parallàxis n°0, Brescia, ETK Edikit, 2014, p. 91.
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